Il primo decennio del Novecento fu caratterizzato dal riformismo politico di Giovanni Giolitti, un sistema politico che, pur nelle sue molteplici contraddizioni, fu “una democrazia limitata eppur reale”. Lo statista piemontese, nel quadro di una modernizzazione sociale ed economica dell’Italia, aveva portato avanti una politica di apertura verso il Partito socialista, trovando ascolto e collaborazione nella corrente riformista di Filippo Turati, allora prevalente in seno al partito. Contemporaneamente però Giolitti basava il proprio consenso nell’Italia meridionale sull’appoggio di clientele reazionarie e corrotte, tanto che fu definito da Gaetano Salvemini, suo acerrimo oppositore, “il ministro della malavita”.
Con gli anni Dieci il clima politico italiano andò mutando rapidamente. Evento fondamentale in tal senso fu la guerra italo-turca di Libia (1911-1912), voluta dallo stesso Giolitti, che ebbe pesanti ripercussioni anche a livello internazionale: il declino dell’Impero Turco, a seguito della sconfitta subita dall’Italia, finì infatti per destabilizzare anche l’area balcanica, dove si venivano scontrando l’Impero austro-ungarico (alleato nella Triplice alleanza con Germania ed Italia) e la Serbia, che aveva nell’Impero Russo il suo alleato e protettore. La Russia zarista da canto suo era alleata con Francia e Gran Bretagna nella Triplice intesa.
In Italia l’avventura libica finì per porre termine all’equilibrio politico e sociale che aveva caratterizzato l’età giolittiana, dando avvio ad un processo di radicalizzazione di posizioni politiche contrapposte. Iniziò ad emergere allora la fragilità della democrazia italiana, l’esiguità delle forze che si battevano per un allargamento del sistema democratico e di contro il crescente peso politico e culturale di coloro che invece, partendo proprio dai limiti della democrazia reale, finivano per esaltare il ruolo delle élite politiche.
In particolare a destra prese corpo sempre più una retorica nazionalista portata avanti da un agguerrito movimento uscito rafforzato dalla vittoriosa impresa libica. Questo movimento nazionalista, comunque ristretto ad una esigua ma influente minoranza, esaltava l’imperialismo coloniale italiano e pretendeva per l’Italia un ruolo più rilavante nel contesto politico del continente europeo, facendo leva anche sulle frustrazioni di una parte dell’opinione pubblica, che non aveva dimenticato la sconfitta di Adua e desiderava un avvenire coloniale anche per l’Italia.
A sinistra nel movimento socialista il peso politico delle correnti rivoluzionarie (definite massimaliste), all’interno delle quali l’astro nascente era Benito Mussolini, crebbe a scapito delle correnti riformiste. Un punto di svolta fu il Congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, che vide l’espulsione dal partito della corrente di destra del riformismo, guidata da Leonida Bissolati ed Ivanoe Bonomi, e l’acquisizione, a discapito dei riformisti di sinistra di Turati e Claudio Treves, del controllo sia del partito, di cui divenne segretario il massimalista Costantino Lazzari, sia del giornale del partito, l’«Avanti!», di cui proprio Mussolini assunse la direzione, succedendo a Treves.
Particolarmente carico di tensioni politiche e sociali fu il 1914, che vide una lunga sequenza di scioperi e manifestazioni, che culminarono nella “Settimana rossa” (7-14 giugno 1914), un movimento con caratteri d’insurrezione, che, pur esteso a varie regioni italiane, ebbe il proprio epicentro in Romagna e nelle Marche.