Il Patto segreto di Londra, che impegnava l’Italia ad entrare in guerra accanto a Francia, Gran Bretagna e Russia, fu voluto dal governo, nel quale predominavano le tendenze interventiste, senza informare il parlamento, pur sapendo che la maggioranza di esso, come pure la maggioranza del paese, fosse contraria all’intervento.
Nei giorni successivi alla rottura con l’Austria - Ungheria, mentre i tedeschi e gli austriaci che risiedevano in Italia si affrettavano a lasciare il paese ed i tentativi di mobilitazione dei neutralisti, caratterizzati ormai da rassegnazione, furono senza esito, l’interventismo si scatenò nelle piazze fino ad arrivare, il 14 maggio, ad un tentativo di attacco al parlamento.
Mussolini e D’Annunzio si posero alla guida delle manifestazioni, sempre più violente e aggressive, che avevano come primo bersaglio il neutralista Giolitti, a cui ancora il 9 maggio trecento parlamentari avevano confermato di far riferimento, ma colpivano anche socialisti e cattolici; gli interventisti di sinistra si unirono ai nazionalisti, partecipando a questa mobilitazione.
Salandra, in difficoltà perché data l’assenza di una maggioranza a lui favorevole temeva di non poter onorare l’accordo con l’Intesa, colse l’occasione per forzare la mano al re e presentò le proprie dimissioni; le dimissioni furono respinte dal re Vittorio Emanuele III, che dimostrò così chiaramente la volontà di sostenere comunque il governo contro la volontà del Parlamento. Il Parlamento cedette ed il 20 maggio concesse a Salandra i pieni poteri per entrare in guerra; Filippo Turati, motivando il voto contrario dei socialisti, che furono i soli ad opporsi ai pieni poteri, ribadì la posizione ufficiale del partito, favorevole ad un neutralismo che non compromettesse lo sforzo bellico del paese secondo la formula “né aderire né sabotare”.
In realtà le modalità con le quali prevalse la minoranza interventista, con un intervento del re che è stato assimilato da alcuni storici ad una sorta di colpo di Stato, ed il clima instaurato soprattutto ad opera dagli interventisti, definito non a torto “veicolo di tossine antidemocratiche e protofasciste nel tessuto della società civile”, avranno conseguenze di lungo periodo negative per la sorte della democrazia in Italia.
Il 24 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria (ma non alla Germania ed alla Turchia, alleati degli Asburgo) mentre le violenze interventiste, sia pur in tono minore, continuarono, prendendo ora come bersaglio principale i tedeschi e gli austriaci che non avevano lasciato il paese. In una lettera del primo giugno 1915 a Papini, Mussolini descrive ed esalta l'assalto della "folla milanese" a case e negozi di "tedeschi" del 26 maggio 1915.
Fin dall’inizio del conflitto in realtà rimase fra le forze interventiste un equivoco di fondo; condividendo tutte le posizioni di politica interna, comprese quelle relative alla necessità di impedire a tutti i neutralisti (accomunati nella definizione di "disfattisti") una libera propaganda delle proprie idee, misero temporaneamente da parte le profonde divergenze sulla politica estera, e cioè su quali fossero gli obbiettivi che l’Italia avrebbe dovuto conseguire con la vittoria. Mentre per gli interventisti di sinistra, che basavano il loro impegno sul principio di nazionalità ed erano favorevoli alla guerra anche per il timore dl una vittoria del militarismo prussiano, i territori adriatici allora parte dell’ Austria-Ungheria dovevano essere attribuiti all’Italia o alla Serbia in base all’etnia prevalente, per i nazionalisti invece praticamente tutta la costa Dalmata sarebbe dovuta entrare a far parte del Regno d’Italia. Al termine della guerra le divergenze esplosero (fece clamore una contestazione di Mussolini e Marinetti a Bissolati, cui impedirono l’11 gennaio 1919 di tenere alla Scala di Milano un discorso sulla politica estera, episodio che sancì la definitiva rottura tra le due ali dell’interventismo).