Il 15 maggio 1916 l’esercito austro-ungarico attaccò in forze l’esercito italiano sull’Altopiano di Asiago. Nonostante in precedenza fossero pervenute molte informazioni su un possibile attacco nemico anche ad opera di disertori, l’alto comando dell’esercito non aveva creduto alla possibilità di un’offensiva su larga scala sul fronte settentrionale. Pertanto l’esercito italiano fu trovato impreparato di fronte all’attacco, aperto da un imponente fuoco d’artiglieria.
La prima fase dell’attacco austriaco fu inarrestabile, con ingenti perdite tra caduti e prigionieri; il panico diffusosi tra i comandanti facilitò l’avanzata nemica: due settimane dopo l’inizio dell’offensiva gli austriaci avevano occupato buona parte dell’Altopiano di Asiago e si temeva un collasso totale del fronte, ma la reazione italiana e le difficoltà di movimento degli attaccanti nei giorni successivi capovolsero l’esito della battaglia. Anche a seguito di un attacco russo sul fronte dell’Europa orientale, il 16 giugno gli austroungarici arrestarono l’attacco, rinunziando a cercare di penetrare nella pianura sottostante e ripiegando nei giorni successivi su posizioni più facili da difendere.
Tra le perdite subite dagli italiani vi furono anche la cattura e la successiva esecuzione di due irredentisti, Fabio Filzi e Cesare Battisti.
Più in generale la prima fase dell’offensiva austriaca mise in evidenza le carenze organizzative e l’incapacità degli alti comandi nel reagire efficacemente ad un attacco in massa. Questi comportamenti si ripeteranno, con esiti molto più letali, durante la battaglia di Caporetto.
La Battaglia degli altipiani ebbe anche importanti conseguenze politiche, contribuendo alla caduta del Governo Salandra, cui subentrò un governo presieduto da Paolo Boselli. Gaetano Salvemini espresse le proprie valutazioni duramente critiche verso l’atteggiamento del Parlamento in questa fase difficile delle vita politica in una lettera a Giustino Fortunato del 18 giugno 1916, attribuendo in buona parte la colpa della crisi ministeriale ad un complotto di nazionalisti e giolittiani, accusati di voler “tornare agli amori tedeschi”.
La tattica militare del generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’esercito, puntò fin dall’inizio del conflitto a sfondare sul fronte orientale italiano, che per un lungo tratto seguiva il corso dell’Isonzo. Tra il 1915 ed il 1917 furono sferrate ben undici offensive, contrassegnate da gravissime perdite umane e con risultati ben poco significativi da un punto di vista militare.
In particolare particolari aspettative precedettero l’undicesima battaglia (battaglia della Bainsizza), la cui preparazione fu molto accurata e vide l’impiego di grandi risorse.
Una lettera di Giorgio Schiff Giorgini alla madre Matilde in data 3 agosto 1917 illustra lo stato d’animo degli ufficiali italiani in vista dell’offensiva, “l’offensiva più grande che ancora si abbia avuto. La piana dell’Isonzo è un vivaio di uomini e di artiglierie”. Una lettera successiva, il 24 agosto, illustra la prima evoluzione dello scontro, con la cattura i molti prigionieri e l’illusione di una vittoria definitiva (“al di là dell’Isonzo – il 24 agosto. Vane speranze…”, fu il commento della madre), ma una lettera di poco successiva, del 14 settembre, riporta la disillusione e la stanchezza per una guerra segnata “dalla coscienza dell’inutilità del sacrificio”.
In realtà anche l’undicesima battaglia, come le precedenti, costò enormi perdite (40.000 morti, 108.000 feriti, 18.000 prigionieri) ma non portò a conquiste significative.