Con il miglioramento dei trasporti e l’inizio della grande emigrazione i percorsi si ampliarono raggiungendo prima tutti i paesi europei e poi le Americhe. Dalla Toscana i contadini andavano in Corsica, per i lavori agricoli, e poi in Francia, attratti da paghe migliori, anche se con l'emigrazione su grande scala alcuni mestieri cominciarono ad avere preponderanza.
Questo mestiere specializzato si diffuse per tutte le vie del mondo a partire specialmente dalla Lucchesia. Già tra il 1870 e il 1874, anni in cui fu svolta un’inchiesta industriale, tra i lavori e i commerci esercitati da italiani all’estero risultava l’arte del figurinista. A Parigi, per esempio, ne erano presenti più di una dozzina e almeno sei esercitavano la loro arte a “un grado superiore, diventando creatori di modelli”, mentre gli operai “figuristi” erano circa duecento ed era sconosciuto il numero dei garzoni che vendevano le statuette per le strade. D’altro canto famiglie in cattive condizioni economiche potevano considerare con sollievo l’affidamento a un padrone di un figlio: una bocca in meno da sfamare, una piccola somma ricevuta come compenso e la speranza che il piccolo potesse imparare il mestiere di venditore e, poi, di figurinaio vero e addirittura di padrone. “Fare una campagna” all’estero significava partire per un periodo dai ventiquattro ai trenta o trentasei mesi. Il padrone, proprietario delle forme, costituiva la sua compagnia che prevedeva diverse professionalità: il formatore, che faceva con le forme le statuine, lo sbavatore che le uniformava, il colorista che le dipingeva. Una volta raggiunta la destinazione prescelta veniva installato il laboratorio e le statuine prodotte venivano vendute per le strade dai ragazzi. Rappresentavano madonne e santi, il Papa (apprezzato non solo dagli italiani ma anche dagli irlandesi, cattolici), eroi vari – Garibaldi si vendeva bene ovunque – e personaggi del paese in cui si lavorava (negli Stati Uniti era molto richiesto il presidente Abramo Lincoln).
Gli emigranti, in gran parte contadini, si impegnarono anche all’estero - ma soltanto se costretti - nei lavori agricoli, parteciparono al disboscamento o alla bonifica di terreni incolti, si impiegarono, come manodopera non qualificata, nella realizzazione delle grandi vie di comunicazione, delle ferrovie, delle più grandiose opere edilizie e, infine, nel pesante lavoro delle miniere. La loro scelta aveva quasi sempre queste caratteristiche: rifiuto di conoscere il paese in cui si era giunti, e quindi nessuna integrazione e minima conoscenza della lingua; risparmio quanto più alto possibile e nel più breve periodo per affrettare il rientro; accettazione, di conseguenza, non solo di un esagerato impegno di lavoro ma anche di un livello di vita che definire spartana diventa un eufemismo. Naturalmente molti ripeterono più volte questi soggiorni, facilitati in ciò dalle migliorate condizioni di viaggio anche in termini di tempo occorrente per la traversata.
L’area di origine portava a svolgere determinati mestieri. Prendendo, sempre come esempio, l’esodo per l’Australia si nota che gli emigrati dalle zone montane ripresero nel Western Australia attività di boscaioli o diventarono tagliatori di canna da zucchero; quelli provenienti da zone di pianura si dedicarono ad attività agricole o esordirono nel settore terziario.
Alla realizzazione di colossali opere pubbliche partecipò un numero immenso di emigrati italiani e numerose furono le vittime di incidenti sul lavoro. I trafori del Frejus, del San Gottardo, del Sempione o la ferrovia transiberiana e quella del Tonkino li videro all’opera. Caratteristica dell’impiego nel settore dell’edilizia fu spesso la temporaneità e il muoversi in gruppi di lavoro comprendenti professionalità diverse: dai manovali ai tecnici. Di contro un certo numero di emigrati raggiunsero il successo come imprenditori. Di queste storie di successo si può fare un esempio: in Brasile si svolse l’eccezionale vicenda di Giuseppe Giorgi, divenuto, da semplice operaio, costruttore di ferrovie in virtù delle sue capacità tecniche e organizzative; riuscì così ad avere buone commesse dall’amministrazione pubblica locale e a sfondare in un settore ad alta redditività che, bisogna sottolinearlo, era già occupato e dominato dagli inglesi.
Di fronte alle molte donne che rimasero a casa accudendo la famiglia, lavorando e assumendosi la responsabilità degli interessi economici dei mariti emigrati, man mano anche il genere femminile si fece spazio all'estero. Il primo settore industriale in cui le emigrate ebbero posto fu quello tessile, a cominciare dalle fabbriche francesi del Lionese. Invece dall’impegno come casalinghe nacque e si moltiplicò, specialmente nell’America del Nord, il bordo, cioè il tenere a pensione dei compatrioti. Era un lavoro considerato tipicamente femminile, insieme a quello di confezioni varie a domicilio, perché permetteva alle donne di rimanere “angeli del focolare” guadagnando e contribuendo al miglior andamento del ménage familiare.
In Brasile, per le fazendas, per lo più produttrici di caffé, la donna manteneva il ruolo tradizionale di moglie, madre e lavoratrice “dipendente”. Infatti i proprietari tendevano ad importare interi e numerosi nuclei familiari, i cui componenti, pur essendo impiegati tutti nel lavoro dei campi, erano gestiti esclusivamente in tale rapporto attraverso la mediazione tradizionale del capofamiglia.
Le donne andavano anche da sole in emigrazione diventando balie e domestiche. Il baliatico è stato tipico di Toscana, Lazio, Piemonte,Veneto e Friuli, regioni caratterizzate da emigrazione maschile stagionale e insieme a quella degli uomini, per tradizione i primi a partire, si stabilì una corrente migratoria di sole donne che si dedicarono al baliatico. Nel mondo rurale italiano le donne avevano come “ricchezza” il latte da vendere: allattavano così i figli di signori e notabili locali, o si impegnavano presso istituzioni di carità, specialmente negli asili per i bambini abbandonati, gli “esposti”, e infine andavano all’estero con la prospettiva di un buon compenso.
Una balia, in generale, guadagnava molto più di un operaio e godeva di notevoli benefici: un guardaroba fornito e con pretese di eleganza; numerosa biancheria personale e da casa; ornamenti, definiti proprio “gioielli da balia”, che comprendevano collane, spille e orecchini, spesso di corallo rosso; e la certezza che per molti mesi non si sarebbe sofferta la fame, si sarebbe vissuto in case belle e confortevoli, curate e rispettate dalla famiglia di accoglienza. Era senza dubbio molto anche se il prezzo da pagare era l’affido del proprio figlio in “mani mercenarie”, come dicevano ipocritamente i benpensanti, mani che in molti casi erano quelle di altre donne della famiglia.
Per gli emigrati che si dedicarono al commercio gli inizi furono pressoché uguali: dopo l’arrivo nel nuovo paese lavorarono per alcuni anni come dipendenti dei parenti o degli amici che li avevano esortati e aiutati a emigrare. In questo percorso la famiglia ebbe sempre un ruolo fondamentale non solo come fornitrice degli iniziali mezzi economici ma anche, nel caso di emigrazione del nucleo familiare, in tutto o in parte, con l’impegno diretto nella gestione dell’attività.
I primi negozi furono piccoli spacci, per lo più nel settore alimentare, ed ebbero come iniziale clientela la comunità italiana. Alcune di queste attività riuscirono a consolidarsi nel tempo e diversi negozi si trasformarono in poderose aziende di produzione e di trasformazione dei prodotti del suolo e dell’allevamento o in imprese di grande distribuzione internazionale.
E’ il settore della ristorazione quello in cui hanno operato e operano in gran numero e con successo gli emigrati italiani e i loro discendenti in ogni paese del mondo. All’inizio erano venditori ambulanti di gelati, d’estate, e di caldarroste in inverno; tra essi era preponderante la presenza di lucchesi e parmensi. Una volta diventati stanziali, ebbero le prime esperienze come lavoratori subordinati: camerieri, sguatteri e, poi, cuochi in ristoranti e alberghi. Infine: proprietari. Se i primi ristoranti erano luoghi di socializzazione per i nostri connazionali, ben presto attrassero clientela di ogni etnia e si diffusero a macchia d’olio nel territorio di ogni paese. Esemplare è lo svolgersi di questo tipo di emigrazione verso il Regno Unito. Da Londra, primo punto di attrazione,si spostarono progressivamente nelle più grandi città di provincia, da Manchester a Liverpool; nelle zone industriali del Galles meridionale; in Scozia, particolarmente a Glasgow; e anche in Irlanda, aprendo in tutti questi luoghi botteghe e bar.
Lo stesso processo si ebbe per le gelaterie: il primo passo fu la vendita estiva con il carretto poi si passò agli ice-cream shops, in cui, per condizioni climatiche poche propizie in gran parte dell’anno, si vendevano anche altri prodotti: acque minerali, bibite varie, caffè, dolci, confetture e cioccolata. Fu la Scozia a essere particolarmente “invasa”: nei primi anni del novecento in circa duecento località si contavano un migliaio di locali con circa cinquemila addetti.
All’inizio della loro attività “imprenditoriale” un curioso motivo per il successo dei locali, che spesso si limitavano a vendere fish and chips, fu il loro differenziarsi dai tradizionali pubs, frequentati dai soli uomini (non erano ammessi i minorenni considerata la consistente quantità di alcolici che veniva consumata). I locali italiani erano, invece, aperti a donne e ragazzi per la stessa ragione (non si vendevano bevande alcoliche).