Archivi in Toscana

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La vetrina dei segreti

A cura di Sara Pollastri, 10 dicembre 2015

E l'archivio prese un granchio!

Il recipiente con il granchio
Sesto Fiorentino, 1946

Questi documenti sono conservati presso l'Archivio Comunale di Sesto Fiorentino

Che una volta la cucina sestese andasse famosa, oltre che per le budella di maiale, per il fritto di granchi teneri, forse non molti, almeno fra i giovani, lo sanno. E anche per coloro che hanno potuto assaggiare questo piatto prelibato o hanno conosciuto gli ultimi granchiai, credo sarà una scoperta sapere che questa attività è stata praticata a Sesto fin dal XVIII secolo.

E’ stato così per me, quando consultando l’archivio comunale, in un documento del 1774, un “Riscontro di bocche” per la tassa del macinato, ho trovato elencati 21 capofamiglia di professione granchiai, quasi tutti del popolo di S. Martino, che era il nucleo principale della comunità di Sesto. Che ci fossero molti contadini, “opranti alle porcellane”, che sarà poi il mestiere caratteristico di Sesto, era prevedibile ma che vi fossero già i granchiai era una novità. Mi è sembrato valesse la pena approfondire la ricerca su una attività così antica e singolare. Frugando nei cassetti delle memorie dei sestesi più anziani ho reperito i nomi di almeno due degli ultimi granchiai: Gigi della Lella e il Gheggi. Gigi della Lella si chiamava in realtà Luigi Baldi e forse non è una semplice coincidenza che il cognome Baldi ricorra anche fra quelli dei granchiai del 1774. Abitava sul Casato (via Galilei) e nel periodo invernale lavorava ai macelli di Firenze. Gheggi era il soprannome di Angelo Campostrini, di professione ceramista, che per arrotondare cercava i granchi, i ranocchi ed i grilli per venderli alle Cascine il giorno dell’Ascensione nelle gabbiette fabbricate con le sue mani. L’attività del granchiaio era infatti stagionale, praticata nei mesi estivi, quando i granchi di acqua dolce (Telphusa o Potamon fluviatilis) si riproducono e si spogliano del carapace dopo un ritiro in buca di circa 20 giorni. L’abilità dei granchiai stava nel riconoscere le buche dei granchi lungo le sponde dei torrenti, nell’estrarli dalle loro tane con il “falcione” una specie di lungo coltello, metterli nella balla arrotolata in vita, portarli a casa e farli sopravvivere finché non deponevano la corazza. Allora e solo allora erano teneri e pronti per essere mangiati! I granchiai conservavano i granchi in apposite stanze in recipienti di coccio, uno per granchio, impilati uno sull’altro, come delle piccole torri. Distinguevano i bruni dai gialli, perché quest’ultimi, prossimi alla muta, dovevano essere sorvegliati perché non succhiassero il guscio. La sostanza calcarea contenuta nel guscio consente infatti all’animale di rassodarsi e divenire di nuovo duro nel giro di 24 ore. Per questa ragione il granchiaio doveva stare in guardia e lasciare che il granchio ”poppasse” il guscio solo quel tanto che gli permetteva di essere abbastanza sodo per non morire, ma abbastanza tenero per essere consumato con grande soddisfazione del palato.

Se credete che tutto questo fosse un affar semplice, vi sbagliate. La raccolta e l’allevamento dei granchi era un arte di quelle che si tramandano di padre in figlio e richiedono una speciale conoscenza delle abitudini di questi animali. Tant’è vero che questo mestiere interessò un professore di zoologia di Ferrara, Alessandro Ghigi, che dedicò ai granchiai sestesi un accurato studio L’industria  della Telphusa  fluviatilis a Sesto Fiorentino pubblicato a Pavia nel 1915. E se non bastasse aggiungiamo che perfino l’autorevole Enciclopedia italiana dell’Istituto Treccani al lemma granchio cita i granchiai dei dintorni di Firenze.

LE RICETTE

Sono tramandate due ricette per la cottura dei granchi: una li prevede intrisi nell’uovo sbattuto, bucati con una forchetta e buttati in padella ancora vivi; l’altra ha come variante la salsa di pomodoro nella quale i granchi venivano cotti dopo essere stati passati nella farina con o senza il passaggio precedente nell’uovo. C’è infine un’altra ricetta, questa volta medicinale. A Sesto c’è chi può testimoniare di essere stato curato per il mal di gola con un impiastro ottenuto schiacciando i granchi, guscio compreso. A parte il cattivo odore, pare fosse portentoso! Del resto la medicina popolare fin dal Medioevo attribuiva a questi e ad altri crostacei proprietà terapeutiche.

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