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Il patrimonio, le istituzioni, gli eventi

Lungo la scia di un'elica. Parte I

a cura della Fondazione Paolo Cresci per la storia dell'emigrazione italiana, maggio 2016

L'arrivo

L’arrivo al porto di New York

Nel paradiso terrestre promesso dalle “Guide” le cose, in realtà, stavano diversamente. Subito dopo l’arrivo gli immigrati cominciavano a rendersi conto di essere giunti nell’America com’era e non come l’avevano sognata. Le immagini di cui si erano riempiti gli occhi e la mente trovavano scarso riscontro nelle pesanti formalità burocratiche cui venivano sottoposti e, almeno negli Stati Uniti, molti erano coloro che venivano respinti specialmente perché affetti da malattie invalidanti. Quelli che venivano ammessi nel paese erano trattati, e contrattati, come a una fiera del bestiame o a un mercato degli schiavi. Inoltre, per restringere la portata delle correnti migratorie furono varati, nel tempo, provvedimenti di vario genere.

In Argentina e Brasile, paesi che hanno accolto grandi masse di emigranti italiani, anche lo sbarco non era facile. Dalla nave si raggiungeva la terra ferma dopo il trasbordo su barche e barchette (in Argentina l’ultimo tratto d’acqua veniva attraversato su carretti trainati da cavalli mentre in Brasile, dal porto di Santos, si raggiungeva San Paolo in treno). Una volta sulla terraferma si veniva alloggiati in strutture che potremmo definire di contenzione - l’Hotel e l’Hospedaria degli immigranti. I governi dei due paesi offrivano informazioni generali su usi e costumi locali oltre l’aiuto di uffici del lavoro che, però, operavano senza alcuna forma di selezione dei nuovi arrivati in base alle competenze lavorative. In realtà il punto di forza dell’emigrante era la “catena migratoria”, la rete di parenti, amici, compaesani che, avendo già vissuto l’esperienza dell’esodo, lo guidava in ogni fase dell’espatrio e ne facilitava l’inserimento nel paese di destinazione.

Negli Stati Uniti, all’arrivo nel porto di New York, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis Island dove i controlli erano molti e severi. Tutta una serie di norme operavano una prima, drastica selezione. Esse spaziavano nei più disparati campi: si veniva respinti per malattia (per esempio, i tracomatosi erano al più presto reimbarcati per il paese di origine), per indigenza estrema, per età giovanile o troppo avanzata, per stato civile (donne e orfani che non avevano nel paese chi li soccorresse e li aiutasse a trovar lavoro). Nel 1917, dopo averlo preannunciato per più di vent’anni, fu varato il Literacy Act, una legge sull’analfabetismo che impose un’effettiva stretta all’immigrazione e colpì tantissimi italiani specie meridionali. Ulteriori restrizioni si ebbero con l’approvazione delle leggi, nel 1921 e nel 1924, dette Quota Act che permettevano annualmente l’ingresso di immigrati di una qualsiasi etnia in numero molto limitato. 

Strettamente legata al fenomeno dell’emigrazione era la Statua della libertà - chiamata da sempre Miss Liberty -, donata dalla Francia agli Stati Uniti in segno d’amicizia, dopo che furono incisi sul suo basamento i versi di Emma Lazarus: “Tenetevi, antiche terre, i fasti della vostra storia… Datemi coloro che sono esausti, i poveri, le folle accalcate che bramano di respirare libere, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti: mandatemi coloro che non hanno una casa, che accorrano a me, a me che innalzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro”. Nell’immaginario di molti immigrati la Statua della libertà è diventata l’America pur con tutte le sue contraddizioni. Essi scoprirono che le strade non erano pavimentate di oro e addirittura che quelle strade sarebbe toccato a loro costruirle. E la speranza di vivere in uguaglianza e in libertà si sarebbe presto dissolta.